(Per pura necrofilia antologica ripubblico un mio intervento che uscì su Micromega del novembre 98)
"E allora vidi una radio in bachelite colpita da fulmini e saette, da cui fuoriesce il cervello in ebollizione. Una nuova forma di energia stimola e riattiva l'antica macchina delle meraviglie e la riporta a nuova vita. La sostanza cerebro-valvolare vetero-elettronica che schizza dalla pseudocalotta cranica in polimero simil osseo testimonia la nascita dell'ibrido dalla ricomposizione di vari pezzi di cadaveri radiofonici attivati dalla torpedine telematica."
Non provate a chiedere in giro cosa si pensi della radio, tutti ne diranno meraviglie e faranno a gara per infiocchettare banalità del genere: “stimola la fantasia” o peggio “permette di fare altre cose mentre la si ascolta”. Se ad essere interrogato è poi il grande giornalista o conduttore del momento con il telegatto in mano ottenuto per sue video-performance, vi stroncherà sul nascere ogni replica dichiarando che ha iniziato alla radio, ma anche ora che la fama lo lambisce per televisivi cimenti lui vorrebbe tornare a fare qualcosa alla radio… Deve morire! Alla radio non si torna una volta usciti e soprattutto non si fa mai “qualcosa”, anche se in Italia periodicamente il “facciamo qualcosa per la radio!” rappresenta il sussurro ruffianesco di chi pensa di appoggiarsi ad un immaginario pulito e alleggerito dalle imbarazzanti ipoteche di trivialità che ogni iniziativa televisiva comporta. Tanto per darsi un tono in più occasioni qualche maître à penser afferma che la radio va rilanciata. La filosofia sottile che sottende a tale monotona dichiarazione d’intenti è stata spesso quella di chi sa già che il progetto non porterà a risultati esaltanti, ma permetterà di vivacchiare. Si cerca di illudere Cenerentola di poter partecipare al gran ballo di corte con il suo corredo di abitucci rimediati. Nessuno d’altro canto se la sente di pronunciare a cuor leggero la parola ra-dio, sarà per quel “dio” che si nasconde dentro il suo nome, sarà per un passato importante che si intrasente tra livree consunte, scarpette da ballo scalcagnate, dentiere saltellanti.
L’apparecchio radiofonico dell’ascoltatore in via d’estinzione ha impresso sulla scala delle frequenze, con lo smalto rosso delle unghie, il canale che ha scelto per la vita e che resterà tale fino alla fine. Gli altri, detti “il pubblico giovane” fluttuano nell’ascolto ed è comodo ipotizzarli come lobotomizzati totali da nutrire con successi musicali e chiacchiere a tappeto. Su tali reperti umani si articolano le strategie e i programmi.
Un altro pubblico resta fortunatamente invisibile, è composto da chi ama pensare alla radio come ordigno per destrutturare, svelare, minare alla base. La punta più estrema cova l’immagine romantica delle radio pirata. Trasmissioni come atti eroici e rivoluzionari, continua fuga dai gendarmi e ricerca di derive verso momentanei ormeggi nell’etere, solo il tempo di dire: “ci siamo” e poi fuggire per non essere individuati.
[1] Cfr.Carlo Emilio Gadda, Norme per la redazione di un testo radiofonico. Edizioni Radio Italiana, Torino1953 (ripubblicato in Gadda al microfono, Nuova Eri, Torino 1993).
[2] "Ragazzi in cerca di spazio sociale, artisti ed extracomunitari, anarchici e fuggiaschi (…)”.Cfr. Renzo Paris, Squatter, Castelvecchi, Roma 1999 dove si fa la storia di una parte dell'Autonomia romana. L'esperienza più nota alle cronache è però quella nata a Torino intorno a radio Black Out. Cfr. Ascolta questo libro, leggi questa radio, Radioproduzioni Blackout, Torino, No Copyright.
[3] Tommaso Zanella, in arte Er Piotta, rapper romano che raggiunse apici di gloria nell'estate 1999 per il suo Supercafone.
[4] Sulla fenomenologia del cyberfighetto ci sarebbe molto da dire, anche perché l'abbiamo spesso evocato alla radio. Basti sapere che lo immaginiamo con un lap top ricoperto di radica entusiasmarsi per il suo cellulare che lo collega anche all' Internet.
"E allora vidi una radio in bachelite colpita da fulmini e saette, da cui fuoriesce il cervello in ebollizione. Una nuova forma di energia stimola e riattiva l'antica macchina delle meraviglie e la riporta a nuova vita. La sostanza cerebro-valvolare vetero-elettronica che schizza dalla pseudocalotta cranica in polimero simil osseo testimonia la nascita dell'ibrido dalla ricomposizione di vari pezzi di cadaveri radiofonici attivati dalla torpedine telematica."
Non provate a chiedere in giro cosa si pensi della radio, tutti ne diranno meraviglie e faranno a gara per infiocchettare banalità del genere: “stimola la fantasia” o peggio “permette di fare altre cose mentre la si ascolta”. Se ad essere interrogato è poi il grande giornalista o conduttore del momento con il telegatto in mano ottenuto per sue video-performance, vi stroncherà sul nascere ogni replica dichiarando che ha iniziato alla radio, ma anche ora che la fama lo lambisce per televisivi cimenti lui vorrebbe tornare a fare qualcosa alla radio… Deve morire! Alla radio non si torna una volta usciti e soprattutto non si fa mai “qualcosa”, anche se in Italia periodicamente il “facciamo qualcosa per la radio!” rappresenta il sussurro ruffianesco di chi pensa di appoggiarsi ad un immaginario pulito e alleggerito dalle imbarazzanti ipoteche di trivialità che ogni iniziativa televisiva comporta. Tanto per darsi un tono in più occasioni qualche maître à penser afferma che la radio va rilanciata. La filosofia sottile che sottende a tale monotona dichiarazione d’intenti è stata spesso quella di chi sa già che il progetto non porterà a risultati esaltanti, ma permetterà di vivacchiare. Si cerca di illudere Cenerentola di poter partecipare al gran ballo di corte con il suo corredo di abitucci rimediati. Nessuno d’altro canto se la sente di pronunciare a cuor leggero la parola ra-dio, sarà per quel “dio” che si nasconde dentro il suo nome, sarà per un passato importante che si intrasente tra livree consunte, scarpette da ballo scalcagnate, dentiere saltellanti.
L’apparecchio radiofonico dell’ascoltatore in via d’estinzione ha impresso sulla scala delle frequenze, con lo smalto rosso delle unghie, il canale che ha scelto per la vita e che resterà tale fino alla fine. Gli altri, detti “il pubblico giovane” fluttuano nell’ascolto ed è comodo ipotizzarli come lobotomizzati totali da nutrire con successi musicali e chiacchiere a tappeto. Su tali reperti umani si articolano le strategie e i programmi.
Un altro pubblico resta fortunatamente invisibile, è composto da chi ama pensare alla radio come ordigno per destrutturare, svelare, minare alla base. La punta più estrema cova l’immagine romantica delle radio pirata. Trasmissioni come atti eroici e rivoluzionari, continua fuga dai gendarmi e ricerca di derive verso momentanei ormeggi nell’etere, solo il tempo di dire: “ci siamo” e poi fuggire per non essere individuati.
Questa genia di insoddisfatti ha l’impressione di ritrovare nella radio la seduzione di un tecnicismo arcaico ed emozionante, un’alternativa all’hi-tech dal nitore inespressivo con cui dialogano per la maggior parte del loro tempo. Nella sua essenzialità spartana la radio crea l’impressione di essere scampata a un naufragio e di rappresentare l’ unico appiglio con il mondo. Può essere collocata in un bagaglio immaginario che assomigli alla fantastica lista del bottino di Robinson, tra barili di polvere e pietre focaie, o nella dotazione di sopravvivenza di un astronauta nel pianeta delle scimmie: in uno zainetto metallico un laboratorio chimico per analizzare il terreno, ma solo mezzo gallone d’acqua.
Esiste un archetipo radiofonico, senza costanti riscontri nell’etere, per il quale la radio non è un mezzo, ma una via espressiva. Una possibilità di assaporare le sfumature del “colore” della voce dei conduttori, giocare sui contrasti e le condivisioni, creare un rapporto esclusivo e personale con l’apparecchio parlante. Il sottofondo che accompagna le giornate di molti proviene piuttosto da una radio intesa come muro con permesso d’affissione. Chiunque, pagando, può incollarci la propria locandina. Si pubblicizzano prodotti di consumo con frequenza talmente alta da elevare lo spot a testo essenziale della programmazione, come snodo ineliminabile tra un pezzo musicale e l’altro. C’è da dire che ciò non sempre rappresenta un limite assoluto, è di gran lunga preferibile il mantra che loda le deità-prodotto all’agnosticismo verbale degli intrattenitori.
Il passaggio/trapasso televisivo
Con un telefono chiunque può condensarsi in una voce che si muove in un tempo di ascolto ed entrare nella macchina delle meraviglie, ci entra con pieno diritto e con tutte le caratteristiche che permettono di vivere in quell’universo. La pseudopartecipazione televisiva è solo un pallido tentativo di emulare il rapporto radiofonico tra chi interviene e chi conduce. Il collegamento via telefono in tv è stata copiato dalla radio che ebbe la sua idea più fulgida nell'aprire i programmi alla comunicazione di ritorno. In televisione naturalmente l'interazione è assai più povera per lo specifico del mezzo che privilegia l'immagine rispetto al valore della parola. Per questa ragione la telefonata in tv è stata relegata all'ambito del giochino a premi, perdendo quella caratteristica di presenza paritaria "in scena" che invece fu una vera innovazione per la radio. Ciò accadrà fatalmente fino a quando non sarà messa a punto un' idea forte di programma che "metta in scena" il pubblico da casa o da qualsiasi altra situazione quotidiana facendolo entrare in un grande spettacolo collettivo, semplicemente attraverso una tecnologia, che si presuppone diverrà di uso comunissimo entro pochi anni. La conquista alla portata di tutti della grande ribalta rappresenterà forse un sogno realizzabile quando i telefonini cellulari trasmetteranno e riceveranno anche l' immagine di chi parla. Allora forse si fonderanno gli interessi dei produttori e dei teledipendenti e collimeranno meravigliosamente affari e sogni di visibilità televisiva, posso ragionevolmente pensare che ciò potrebbe rappresentare una svolta notevole riguardo al contributo che il pubblico potrebbe dare a un programma tv, ma soprattutto una fondamentale realizzazione della più profonda giustificazione della televisione come un luogo di rappresentazione in cui si muovono alias elettronici, vale a dire esseri umani i cui atomi si mutano in pixel. Chi ambisce a una visibilità televisiva, seppur come semplice interlocutore, cessa di essere arbitro del proprio agire, ma entra in una rampa di lancio che lo porta velocemente e in maniera del tutto indolore alla metamorfosi. L’esito del passaggio-trapasso sarà una copia bizzarra del prototipo che, per la sola ragione di essere stata creata nel luogo della massima visibilità, gli farà ombra fino a sovrapporsi completamente a lui in fattezze completamente distorte rispetto all’originale. Purtroppo la memoria televisiva non ha, se non in un atto di fede dei suoi cultori, caratteristiche di realtà assoluta, non è possibile attribuire a una scala oggettivamente riconosciuta di qualità proprie dell’ umano, un suo corrispondente nel mondo delle ombre della televisione.
L’estrema distorsione televisiva fa sì che i sentimenti e le doti intellettive possano essere simulati e rappresentati risultando alla fine assai più convincenti che nella realtà.
Radio dovrebbe significare, al contrario, convenzione, reciprocamente sottoscritta con il suo fruitore, di entrata nel vivo della realtà, esplosione dell’essenziale. La radio potrebbe avere la forza fulminante dell’apologo Zen che squarcia il torpore e disvela l’assoluto, rispetto al pomposo rituale di una liturgia televisiva celebrata per antichi dei ormai ritirati dalla vista degli uomini. Quasi tutta la tv è figlia della radio, pesantemente saccheggiata delle sue invenzioni stilistiche dai media più giovani. La radio, che oggi si presenta come una tv non vedibile, è indubbiamente il risultato è un ibrido abortito, un tendere a modalità stilistiche che la fanno regredire anziché arricchirla. La radio deve considerare un privilegio ineguagliabile la sua cecità nel regno dell’immagine, l’emissione radiofonica ancora di più dovrebbe assimilarsi al vaticinio, alla visione oltre l’apparenza di chi, in assenza di luce, ha sviluppato sensibilità straordinarie.
L’orgoglio della rarità rafforzerebbe nella radio la sua fisiologica trasgressione, mentre l’esito finale della tv sarà il suo dissolvere il reale nell’uniformità, morte delle differenze, morte delle dialettiche, fine dello scambio, il grigio dell’omologazione renderà non più percettibili le vette dalle depressioni. Per questo forse la radio è fortemente elitaria, privilegia l’individualismo sfrenato, premia la presunzione, il narcisismo, il disprezzo per gli usi comuni e i linguaggi unificanti. La tv ha la logica dell’immersione, chi la segue deve essere teletrasportato all’interno del teatro dell’evento. L’ansia del trapasso tiene incollati. Vista la spiccata ambizione da parte dell'umanità di mantenersi in memoria, di restare in vita passando in televisione la propria faccia, le proprie aspirazioni, la propria vicenda, possiamo affermare che il sistema della comunicazione, organismo integrato di vari componenti, altro non è che una macchina emotiva finalizzata alla sopravvivenza ed esistenza, uno strumento fittizio, un concretizzatore di velleità. La radio, orpello tra i più insignificanti del meccanismo, ma non per questo indifferente, rappresenta l’antica amante a lungo praticata, ma attualmente solo spettro di passioni remote. La si vagheggia in nome del passato anche se nel presente nessuno vuol frequentarla. A meno di celebrarla in nome di una passeggera moda per il suo essere meravigliosamente retrò che ostenta in verità un gran retaggio; per questo molti amano parlarne come il primo amore, ma oltre non vanno. Scoperte, riflessioni e anticipazioni vengono offerte dai maestri di pensiero ai canali di diffusione meno raffinati, ma più adatti a trasformare il frutto del loro ingegno in merce e visibilità personale.
La radio uccide e annulla in partenza l’effetto “surrogato di memoria” che la televisione usa come suo elemento fondante. In questo particolare momento, sotto forma di nostalgia, alimenta la necrofilia verso le icone svampite dei suoi decenni di storia. Si costruisce un passato per sopravvivere e continuare a promettere sopravvivenza, flebo di formaldeide ad ogni passaggio. La radio deve invece proporre la sfida del vuoto a perdere, dell’atto gratuito, del passaggio senza ritorno. La radio non regala, semmai toglie, mina, mette in pericolo e questa è la sua caratteristica risolutiva. La parcellizzazione dell’attimo televisivo attraverso una moltitudine di figure professionali lo congela nell’artificiosità pura, nel simulacro immobile di ogni passaggio vitale. Si perde in tv il senso dell’atto, nessuno si muove liberamente, ma si riduce a esito di un sistema complesso di coordinate che ne delimita (e attesta) l’esistere. La radio può essere proposta proprio come esperienza completamente diversa, alla radio si va per nascondersi al mondo, la radio separa il nostro pensiero dalla mimica facciale, la radio chiude il circuito, rimbomba nelle orecchie di chi parla, resta dentro. La parola si confronta continuamente con l’animo che l’ha generata, ma allo stesso tempo fugge immemore a seppellirsi nell’etere.
Carlo Emilio Gadda ci ha lasciato delle regole auree per redigere un testo radiofonico, da anni alle “inderogabili norme e cautele...” [1]si ispirano gli spazi più importanti della radio, oggi di quel decalogo occorrerebbe fare un rogo rituale. Rispettabili principi, ma appartengono ad un’altra epoca e un’altra radio, oggi la radio può solo occupare gli interstizi della grande muraglia della comunicazione globale, ma essere dirompente ed esplosiva una volta passata oltre. Lo schema ucciderebbe il concetto che deve sortire libero su sollecitazione del desiderio di esplosione del pensiero. Perché ciò accada il rapporto con la radio deve essere del tutto sciamanico, quasi una sorta di trance medianica per l’operatore radiofonico, in totale antitesi con i testi precotti e i “gobbi” incombenti in ogni angolo di studio televisivo. L’oltraggio al sacro testo gaddiano va preso come un impegno di deregolamentazione, di smarrimento del filo logico che vuole semplificare la realtà. Mentre da un lato l’ansia televisiva segue l’imperativo di sciogliere ogni complessità, decodificare ogni aspetto del quotidiano, aggiungere sottotitoli esplicativi anche a ciò che appare lampante in una sorta di karaoke permanente. La radio dovrebbe riappropriarsi del fascino della parola di passo, dei linguaggi segreti, del gioco intellettuale. Avere il coraggio di essere impopolare imponendo uno sforzo minimo per essere decifrata, un risveglio vitale dallo stato catatonico della visione tv.
Strumento antagonista
La radio dovrebbe costituire il nesso labile per nuove tribù dissidenti, ma non è assolutamente detto che queste debbano per forza connotare il loro dissentire con segni esteriori d’appartenenza. Si pensi al logorio fisiologico degli “antagonisti-professionali” nel dilemma se stare dentro o fuori dal sistema di riproduzione del reale da cui più sono indefinibili più vengono braccati. Valga l’esempio della rapida stagione mediatica degli squatters,[2] neutralizzati dal termine che li definiva. O peggio ancora la mania di un'estate che ha glorificato il coattismo romanesco di "Er Piotta"[3]. Essere definiti equivale ad essere finiti. Per appartenere alla tribù dei radiomani sarà sufficiente la fedeltà a una voce di cui meglio sarebbe non conoscere il volto, condividere una mania, essere delatori di se stessi e in subordine degli altri. Fuggire dall’imperio della comprensione a tutti i costi, della compassione, della compartecipazione. Essere folli spietati ed egoisti. Questo senza che nessuno lo rinfacci, o ne imponga un mascheramento ipocrita.
Il regno della riproduzione, la serialità televisiva delle opinioni, come delle idee e delle singolarità, lascia larghi spazi alla radio che non dovrebbe (e oramai non potrebbe anche volendo) cercare l’accesso ai grandi numeri, seguire le tendenze, articolarsi sulla frequenza delle grandi mode. Lasci la radio questi spazi e apprenda la navigazione al limite del controcorrente. La partecipazione alla radio crea il senso di carboneria proprio per essere il mezzo stesso fisiologicamente antagonista, la radio ritrova, come un sopravvissuto, i propri affini che pensava estinti. Quanti si erano persi nel mare oleoso degli opinionisti e spiritosoni che arginano la realtà nei confini labili del loro successo di visibilità hanno avvistato un’isola sulla quale ricominciare da capo. Ci arrivano con mezzi diversi e attraverso differenti tragitti personali, ma hanno compreso che c’è la possibilità di esprimersi a dispetto di ogni ufficialità. Il loro linguaggio può anche sembrare a tratti criptico, ma è palese il piacere d’inventare parole rimescolando quelle troppo usurate. Si guatano e annusano dalle caselle di posta elettronica, dai luoghi d’incontro telematici, magari rubacchiando tempo e risorse al proprio lavoro in ufficio. Hanno in sommo dispregio la “cyberfighetteria”[4] con il microprocessore all’occhiello, il loro approccio alla tecnologia li rende più affini ai vecchi radioamatori e mistici del radioascolto.
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In un esatto momento in cui l’importante
è riempire, aspirano al vuoto.
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Le tribù dei fedeli alla radio chiedono di scoprire, al suo interno, cornici adeguate ai loro pensieri inespressi. Non sarà mai possibile che l’umanità si senta totalmente rappresentata dal dissenso a favore di camera delle telepiazze o dalle cronache tracimanti in fiction dei belli e delle belle mesti o sorridenti, ilari o accigliati alla velocità di un mutare di frame?
Ci si è mai chiesti come mai sia così diffuso l’avallare il principio essenziale della civiltà dei media per cui le qualità di un individuo siano non quelle oggettivamente riconosciute, ma piuttosto quelle che l’apparato a questi attribuisce? Tutti concordi sul fatto che la vita si articola realmente nel mondo della riproduzione, ma allo stesso tempo consapevoli che il pensiero non trova le sue elaborazioni più originali nei santuari dell’immaginario scalettato e scandito dalle inquadrature o dai centimetri a disposizione su una pagina di quotidiano. Forse perché pesa su tutto e tutti l’immensa responsabilità di appoggiare la propria opinione a un supporto che la renda eterna. Tutto rimane e rimarrà presente negli archivi, ogni battuta presa al volo, saggio meditato, riflessione parolibera o facezia resta, noi no, noi passiamo, ma la copia resta e questo non è cosa da poco. Forse una forma più libera e creativa non deve essere ossessionata dalla condanna all’immortalità. Basti riflettere sul fatto che ogni parola regalata al sistema dei pensieri pietrificati potrebbe andare a impolpare il nostro coccodrillo, tutti vogliamo quindi artefare e imbellettare la realtà, come la cosmesi funebre anticipata nel tempo, ma così facendo rendiamo sempre più spettrale il nostro sembiante, morti apparenti prima del tempo regaliamo sorrisi e frivolezze.
Cosa di meglio quindi del vuoto a perdere radiofonico per parlare senza tema di essere ricordati. Quale sfida più moderna esiliarsi alla radio e dare corpo momentaneo, quasi una scultura di sabbia, a tutto l’indicibile.
I pochi che hanno accettato la via di una palingenesi autodistruttiva si concedono volentieri all’ombra della propria voce, altri sono radiofonici per ripiego o trattano alla radio con ignavia. La radio disprezza chi ne fa un uso prudente, lo irride come si fa con un amante parsimonioso. I più parlano alla radio e non si preoccupano di sondare oltre i limiti che essi stessi si impongono.
Fieri delle loro cautele vivacchiano in un limbo perenne, con la speranza di essere, prima o poi, accolti in empirei, secondo loro, più gratificanti.
Esiste un archetipo radiofonico, senza costanti riscontri nell’etere, per il quale la radio non è un mezzo, ma una via espressiva. Una possibilità di assaporare le sfumature del “colore” della voce dei conduttori, giocare sui contrasti e le condivisioni, creare un rapporto esclusivo e personale con l’apparecchio parlante. Il sottofondo che accompagna le giornate di molti proviene piuttosto da una radio intesa come muro con permesso d’affissione. Chiunque, pagando, può incollarci la propria locandina. Si pubblicizzano prodotti di consumo con frequenza talmente alta da elevare lo spot a testo essenziale della programmazione, come snodo ineliminabile tra un pezzo musicale e l’altro. C’è da dire che ciò non sempre rappresenta un limite assoluto, è di gran lunga preferibile il mantra che loda le deità-prodotto all’agnosticismo verbale degli intrattenitori.
Il passaggio/trapasso televisivo
Con un telefono chiunque può condensarsi in una voce che si muove in un tempo di ascolto ed entrare nella macchina delle meraviglie, ci entra con pieno diritto e con tutte le caratteristiche che permettono di vivere in quell’universo. La pseudopartecipazione televisiva è solo un pallido tentativo di emulare il rapporto radiofonico tra chi interviene e chi conduce. Il collegamento via telefono in tv è stata copiato dalla radio che ebbe la sua idea più fulgida nell'aprire i programmi alla comunicazione di ritorno. In televisione naturalmente l'interazione è assai più povera per lo specifico del mezzo che privilegia l'immagine rispetto al valore della parola. Per questa ragione la telefonata in tv è stata relegata all'ambito del giochino a premi, perdendo quella caratteristica di presenza paritaria "in scena" che invece fu una vera innovazione per la radio. Ciò accadrà fatalmente fino a quando non sarà messa a punto un' idea forte di programma che "metta in scena" il pubblico da casa o da qualsiasi altra situazione quotidiana facendolo entrare in un grande spettacolo collettivo, semplicemente attraverso una tecnologia, che si presuppone diverrà di uso comunissimo entro pochi anni. La conquista alla portata di tutti della grande ribalta rappresenterà forse un sogno realizzabile quando i telefonini cellulari trasmetteranno e riceveranno anche l' immagine di chi parla. Allora forse si fonderanno gli interessi dei produttori e dei teledipendenti e collimeranno meravigliosamente affari e sogni di visibilità televisiva, posso ragionevolmente pensare che ciò potrebbe rappresentare una svolta notevole riguardo al contributo che il pubblico potrebbe dare a un programma tv, ma soprattutto una fondamentale realizzazione della più profonda giustificazione della televisione come un luogo di rappresentazione in cui si muovono alias elettronici, vale a dire esseri umani i cui atomi si mutano in pixel. Chi ambisce a una visibilità televisiva, seppur come semplice interlocutore, cessa di essere arbitro del proprio agire, ma entra in una rampa di lancio che lo porta velocemente e in maniera del tutto indolore alla metamorfosi. L’esito del passaggio-trapasso sarà una copia bizzarra del prototipo che, per la sola ragione di essere stata creata nel luogo della massima visibilità, gli farà ombra fino a sovrapporsi completamente a lui in fattezze completamente distorte rispetto all’originale. Purtroppo la memoria televisiva non ha, se non in un atto di fede dei suoi cultori, caratteristiche di realtà assoluta, non è possibile attribuire a una scala oggettivamente riconosciuta di qualità proprie dell’ umano, un suo corrispondente nel mondo delle ombre della televisione.
L’estrema distorsione televisiva fa sì che i sentimenti e le doti intellettive possano essere simulati e rappresentati risultando alla fine assai più convincenti che nella realtà.
Radio dovrebbe significare, al contrario, convenzione, reciprocamente sottoscritta con il suo fruitore, di entrata nel vivo della realtà, esplosione dell’essenziale. La radio potrebbe avere la forza fulminante dell’apologo Zen che squarcia il torpore e disvela l’assoluto, rispetto al pomposo rituale di una liturgia televisiva celebrata per antichi dei ormai ritirati dalla vista degli uomini. Quasi tutta la tv è figlia della radio, pesantemente saccheggiata delle sue invenzioni stilistiche dai media più giovani. La radio, che oggi si presenta come una tv non vedibile, è indubbiamente il risultato è un ibrido abortito, un tendere a modalità stilistiche che la fanno regredire anziché arricchirla. La radio deve considerare un privilegio ineguagliabile la sua cecità nel regno dell’immagine, l’emissione radiofonica ancora di più dovrebbe assimilarsi al vaticinio, alla visione oltre l’apparenza di chi, in assenza di luce, ha sviluppato sensibilità straordinarie.
L’orgoglio della rarità rafforzerebbe nella radio la sua fisiologica trasgressione, mentre l’esito finale della tv sarà il suo dissolvere il reale nell’uniformità, morte delle differenze, morte delle dialettiche, fine dello scambio, il grigio dell’omologazione renderà non più percettibili le vette dalle depressioni. Per questo forse la radio è fortemente elitaria, privilegia l’individualismo sfrenato, premia la presunzione, il narcisismo, il disprezzo per gli usi comuni e i linguaggi unificanti. La tv ha la logica dell’immersione, chi la segue deve essere teletrasportato all’interno del teatro dell’evento. L’ansia del trapasso tiene incollati. Vista la spiccata ambizione da parte dell'umanità di mantenersi in memoria, di restare in vita passando in televisione la propria faccia, le proprie aspirazioni, la propria vicenda, possiamo affermare che il sistema della comunicazione, organismo integrato di vari componenti, altro non è che una macchina emotiva finalizzata alla sopravvivenza ed esistenza, uno strumento fittizio, un concretizzatore di velleità. La radio, orpello tra i più insignificanti del meccanismo, ma non per questo indifferente, rappresenta l’antica amante a lungo praticata, ma attualmente solo spettro di passioni remote. La si vagheggia in nome del passato anche se nel presente nessuno vuol frequentarla. A meno di celebrarla in nome di una passeggera moda per il suo essere meravigliosamente retrò che ostenta in verità un gran retaggio; per questo molti amano parlarne come il primo amore, ma oltre non vanno. Scoperte, riflessioni e anticipazioni vengono offerte dai maestri di pensiero ai canali di diffusione meno raffinati, ma più adatti a trasformare il frutto del loro ingegno in merce e visibilità personale.
La radio uccide e annulla in partenza l’effetto “surrogato di memoria” che la televisione usa come suo elemento fondante. In questo particolare momento, sotto forma di nostalgia, alimenta la necrofilia verso le icone svampite dei suoi decenni di storia. Si costruisce un passato per sopravvivere e continuare a promettere sopravvivenza, flebo di formaldeide ad ogni passaggio. La radio deve invece proporre la sfida del vuoto a perdere, dell’atto gratuito, del passaggio senza ritorno. La radio non regala, semmai toglie, mina, mette in pericolo e questa è la sua caratteristica risolutiva. La parcellizzazione dell’attimo televisivo attraverso una moltitudine di figure professionali lo congela nell’artificiosità pura, nel simulacro immobile di ogni passaggio vitale. Si perde in tv il senso dell’atto, nessuno si muove liberamente, ma si riduce a esito di un sistema complesso di coordinate che ne delimita (e attesta) l’esistere. La radio può essere proposta proprio come esperienza completamente diversa, alla radio si va per nascondersi al mondo, la radio separa il nostro pensiero dalla mimica facciale, la radio chiude il circuito, rimbomba nelle orecchie di chi parla, resta dentro. La parola si confronta continuamente con l’animo che l’ha generata, ma allo stesso tempo fugge immemore a seppellirsi nell’etere.
Carlo Emilio Gadda ci ha lasciato delle regole auree per redigere un testo radiofonico, da anni alle “inderogabili norme e cautele...” [1]si ispirano gli spazi più importanti della radio, oggi di quel decalogo occorrerebbe fare un rogo rituale. Rispettabili principi, ma appartengono ad un’altra epoca e un’altra radio, oggi la radio può solo occupare gli interstizi della grande muraglia della comunicazione globale, ma essere dirompente ed esplosiva una volta passata oltre. Lo schema ucciderebbe il concetto che deve sortire libero su sollecitazione del desiderio di esplosione del pensiero. Perché ciò accada il rapporto con la radio deve essere del tutto sciamanico, quasi una sorta di trance medianica per l’operatore radiofonico, in totale antitesi con i testi precotti e i “gobbi” incombenti in ogni angolo di studio televisivo. L’oltraggio al sacro testo gaddiano va preso come un impegno di deregolamentazione, di smarrimento del filo logico che vuole semplificare la realtà. Mentre da un lato l’ansia televisiva segue l’imperativo di sciogliere ogni complessità, decodificare ogni aspetto del quotidiano, aggiungere sottotitoli esplicativi anche a ciò che appare lampante in una sorta di karaoke permanente. La radio dovrebbe riappropriarsi del fascino della parola di passo, dei linguaggi segreti, del gioco intellettuale. Avere il coraggio di essere impopolare imponendo uno sforzo minimo per essere decifrata, un risveglio vitale dallo stato catatonico della visione tv.
Strumento antagonista
La radio dovrebbe costituire il nesso labile per nuove tribù dissidenti, ma non è assolutamente detto che queste debbano per forza connotare il loro dissentire con segni esteriori d’appartenenza. Si pensi al logorio fisiologico degli “antagonisti-professionali” nel dilemma se stare dentro o fuori dal sistema di riproduzione del reale da cui più sono indefinibili più vengono braccati. Valga l’esempio della rapida stagione mediatica degli squatters,[2] neutralizzati dal termine che li definiva. O peggio ancora la mania di un'estate che ha glorificato il coattismo romanesco di "Er Piotta"[3]. Essere definiti equivale ad essere finiti. Per appartenere alla tribù dei radiomani sarà sufficiente la fedeltà a una voce di cui meglio sarebbe non conoscere il volto, condividere una mania, essere delatori di se stessi e in subordine degli altri. Fuggire dall’imperio della comprensione a tutti i costi, della compassione, della compartecipazione. Essere folli spietati ed egoisti. Questo senza che nessuno lo rinfacci, o ne imponga un mascheramento ipocrita.
Il regno della riproduzione, la serialità televisiva delle opinioni, come delle idee e delle singolarità, lascia larghi spazi alla radio che non dovrebbe (e oramai non potrebbe anche volendo) cercare l’accesso ai grandi numeri, seguire le tendenze, articolarsi sulla frequenza delle grandi mode. Lasci la radio questi spazi e apprenda la navigazione al limite del controcorrente. La partecipazione alla radio crea il senso di carboneria proprio per essere il mezzo stesso fisiologicamente antagonista, la radio ritrova, come un sopravvissuto, i propri affini che pensava estinti. Quanti si erano persi nel mare oleoso degli opinionisti e spiritosoni che arginano la realtà nei confini labili del loro successo di visibilità hanno avvistato un’isola sulla quale ricominciare da capo. Ci arrivano con mezzi diversi e attraverso differenti tragitti personali, ma hanno compreso che c’è la possibilità di esprimersi a dispetto di ogni ufficialità. Il loro linguaggio può anche sembrare a tratti criptico, ma è palese il piacere d’inventare parole rimescolando quelle troppo usurate. Si guatano e annusano dalle caselle di posta elettronica, dai luoghi d’incontro telematici, magari rubacchiando tempo e risorse al proprio lavoro in ufficio. Hanno in sommo dispregio la “cyberfighetteria”[4] con il microprocessore all’occhiello, il loro approccio alla tecnologia li rende più affini ai vecchi radioamatori e mistici del radioascolto.
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In un esatto momento in cui l’importante
è riempire, aspirano al vuoto.
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Le tribù dei fedeli alla radio chiedono di scoprire, al suo interno, cornici adeguate ai loro pensieri inespressi. Non sarà mai possibile che l’umanità si senta totalmente rappresentata dal dissenso a favore di camera delle telepiazze o dalle cronache tracimanti in fiction dei belli e delle belle mesti o sorridenti, ilari o accigliati alla velocità di un mutare di frame?
Ci si è mai chiesti come mai sia così diffuso l’avallare il principio essenziale della civiltà dei media per cui le qualità di un individuo siano non quelle oggettivamente riconosciute, ma piuttosto quelle che l’apparato a questi attribuisce? Tutti concordi sul fatto che la vita si articola realmente nel mondo della riproduzione, ma allo stesso tempo consapevoli che il pensiero non trova le sue elaborazioni più originali nei santuari dell’immaginario scalettato e scandito dalle inquadrature o dai centimetri a disposizione su una pagina di quotidiano. Forse perché pesa su tutto e tutti l’immensa responsabilità di appoggiare la propria opinione a un supporto che la renda eterna. Tutto rimane e rimarrà presente negli archivi, ogni battuta presa al volo, saggio meditato, riflessione parolibera o facezia resta, noi no, noi passiamo, ma la copia resta e questo non è cosa da poco. Forse una forma più libera e creativa non deve essere ossessionata dalla condanna all’immortalità. Basti riflettere sul fatto che ogni parola regalata al sistema dei pensieri pietrificati potrebbe andare a impolpare il nostro coccodrillo, tutti vogliamo quindi artefare e imbellettare la realtà, come la cosmesi funebre anticipata nel tempo, ma così facendo rendiamo sempre più spettrale il nostro sembiante, morti apparenti prima del tempo regaliamo sorrisi e frivolezze.
Cosa di meglio quindi del vuoto a perdere radiofonico per parlare senza tema di essere ricordati. Quale sfida più moderna esiliarsi alla radio e dare corpo momentaneo, quasi una scultura di sabbia, a tutto l’indicibile.
I pochi che hanno accettato la via di una palingenesi autodistruttiva si concedono volentieri all’ombra della propria voce, altri sono radiofonici per ripiego o trattano alla radio con ignavia. La radio disprezza chi ne fa un uso prudente, lo irride come si fa con un amante parsimonioso. I più parlano alla radio e non si preoccupano di sondare oltre i limiti che essi stessi si impongono.
Fieri delle loro cautele vivacchiano in un limbo perenne, con la speranza di essere, prima o poi, accolti in empirei, secondo loro, più gratificanti.
[1] Cfr.Carlo Emilio Gadda, Norme per la redazione di un testo radiofonico. Edizioni Radio Italiana, Torino1953 (ripubblicato in Gadda al microfono, Nuova Eri, Torino 1993).
[2] "Ragazzi in cerca di spazio sociale, artisti ed extracomunitari, anarchici e fuggiaschi (…)”.Cfr. Renzo Paris, Squatter, Castelvecchi, Roma 1999 dove si fa la storia di una parte dell'Autonomia romana. L'esperienza più nota alle cronache è però quella nata a Torino intorno a radio Black Out. Cfr. Ascolta questo libro, leggi questa radio, Radioproduzioni Blackout, Torino, No Copyright.
[3] Tommaso Zanella, in arte Er Piotta, rapper romano che raggiunse apici di gloria nell'estate 1999 per il suo Supercafone.
[4] Sulla fenomenologia del cyberfighetto ci sarebbe molto da dire, anche perché l'abbiamo spesso evocato alla radio. Basti sapere che lo immaginiamo con un lap top ricoperto di radica entusiasmarsi per il suo cellulare che lo collega anche all' Internet.
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